Posted on: Giugno 24, 2021 Posted by: marco Comments: 0

Altro mese, altra storia. O meglio, altre storie. Infatti, l’intervistato di giugno 2021 è uno che di storie ne ha tante da raccontare, un pozzo di informazioni inestimabile, un cultore della storia vegliese che non potevamo non interpellare. Luigi Mazzotta si è dedicato molto alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio storico/culturale, ha lavorato e scritto per Veglie e lo ringraziamo per aver risposto alle nostre domande e per aver revisionato il testo che state per leggere. Buona lettura.

Sappiamo che sei uno dei pochi che è riuscito a visitare le catacombe della Chiesa Madre, ormai non più accessibili, vorresti raccontare ai lettori di questa esperienza e di cosa c’è lì sotto?

Si sa che fino all’Editto di Saint-Cloud, emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804, i defunti venivano seppelliti sotto le Chiese le quali, in base al loro cosiddetto ius sepppelendi, percepivano un certo introito economico per la sepoltura dei defunti. Anche in Italia, con l’arrivo di Napoleone, per questioni igieniche furono abolite le sepolture nelle chiese ed istituiti i cimiteri comunali fuori dall’abitato. In un primo momento, a Veglie fu progettato un cimitero alle spalle della Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli detta dell’Iconella ma, poiché il vento di scirocco causava odori nauseabondi verso l’abitato, gli amministratori decisero di costituire il Cimitero Comunale a nord del paese ovvero nel giardino del nostro Convento dei Frati Minori Conventuali che, nel frattempo, era stato soppresso dal nuovo Regno d’Italia ed incamerato nello Stato nella seconda metà dell’800.

Per cui sapevamo che sotto la Chiesa Madre vi erano le sepolture (dal ‘500 all’800). Nel 1992, la Comunità neo-catecumenale di Veglie, chiesero all’Arciprete Don Vito Frassanito di poter sondare ed eventualmente utilizzare la cripta per le loro celebrazioni. Perciò diedero incarico alla ditta edile di Angelico Madaro di fare un piccolo scavo ai piedi del campanile, arrivando fin sotto le fondamenta della Chiesa.

Entrammo carponi e notammo che l’ambiente destinato alle sepolture si estende per tutta la navata centrale della Chiesa Madre. C’era un groviglio di ossa, bare e resti di vestiti e scarpe per circa due/tre metri di profondità.  Ebbi conferma che il pavimento della navata era stato ricostruito nel 1889 circa con travi in ferro; infatti quello originale, cui corrispondeva un’unica volta a botte, crollò in parte durante un sermone e successivamente fu sostituito dall’attuale con travi in ferro. Credo che, con ogni probabilità, durante quei lavori la disposizione originaria delle bare fu alquanto sconquassata.

Inoltre, in corrispondenza dei gradini che portano sui transetti e al presbiterio, c’è un’altra stanza enorme con volta a botte originale, in cui abbiamo notato una montagna di ossa pulite. A sinistra di questa stanza vi è un varco ad arco che, presumibilmente, portava a una scala che fungeva da ingresso al cimitero. Non potemmo più analizzare e vedere nient’altro.

A Veglie la Chiesa Madre non era l’unica ad avere lo ius seppellendi. L’altra e Chiesa era quella del Convento dei Francescani, dedicata a Santa Maria di Veglie o della Favana. Nel 1600 c’è stata una vera e propria diatriba tra i Francescani e il Clero vegliese. Entrambi pretendevano il monopolio del diritto alla sepoltura, tant’è che questa faccenda finì dinanzi al Tribunale della Santa Sede che diede ragione ai Frati. Per cui i parenti dei defunti o per testamento inter vivos gli interessati decidevano il luogo della sepoltura. Tale decisione a favore dei Frati è incisa su una lapide che si trova nella Chiesa del Convento sul retrospetto della facciata. Infatti, nei Registri dei Morti situati nell’Archivio Storico della Chiesa Madre del sec. XVII, vi sono numerosi defunti sepolti “in Ecclesia Sanctae Mariae de Velijs”.

Ritengo che l’invaso sotto la nostra Chiesa Madre debba essere valorizzato a condizione che ci sia, da parte di chi di dovere, una sensibilità storico-culturale ed un impegno manageriale per superare le difficoltà finanziarie e burocratiche.

È legittimo o meno credere che fosse una vera e propria cripta che si poteva visitare, con all’interno anche un altare?

Quando portavano giù i defunti, lo facevano con molta facilità e le bare venivano riposte in modo ordinato. È probabile che ci sia anche un altare ma non è detto, questo non lo possiamo sapere fin quando tutte quelle ossa resteranno lì.

Sappiamo che sei tra le persone più affezionate a questo paese e soprattutto a quella del nostro Santo Patrono. Hai qualche racconto per i nostri lettori?

Su questo argomento ho già pubblicato nel 2009 un mio saggio (vedi in “Santi Patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo” – Cultura e Storia, collana della Società di Storia Patria – sez. di Lecce diretta dal prof. Mario Spedicato dell’UniSalento). Il nostro Protettore è San Giovannino, la cui statua è della prima metà del ‘700 e rappresenta una meravigliosa scultura anatomica di scuola napoletana di un bambino infante. E’ stata scolpita su un legno di Cedro del Libano, chiamato all’epoca legno veneziano perché importato in Italia da commercianti veneziani. Negli anni ottanta del secolo scorso la statua presentava tarli e muffe; su mia iniziativa accolta dall’allora Arciprete don Vito Frassanito fu portata a Conversano presso il laboratorio del professore Diego Judice che si occupò del restauro con l’approvazione della Soprintendenza alla Belle Arti. Sempre allo stesso restauratore furono affidati anche i restauri del Crocefisso (databile al 1450) dell’Altare del Sacramento e delle due relative statue in pietra policroma di San Giovanni Evangelista e della Madonna Addolorata (sec. XVI), nonché degli affreschi cinquecenteschi di Sant’Antonio da Padova e di Sant’Antonio Abate.

La Chiesa Madre di Veglie è sempre stata dedicata a San Giovanni Battista fin dalla sua fondazione tra il XV ed il XVI sec. Per quanto riguarda San Giovanni Battista a Protettore di Veglie, si suppone che fu scelto tale nella metà del ‘500 dagli Squarciafico, feudatari del nostro comune ossia Conti di Copertino e Signori di Veglie. Essi erano ricchi mercanti di Genova, il cui protettore, com’è tuttora, è proprio San Giovanni. Sono alla ricerca, comunque, del decreto pontificio che assurge San Giovanni Battista a Protettore di Veglie; credo di essere sulla buona strada.

L’Altare Maggiore originale della Chiesa Madre era di legno ma intorno al 1743 fu rifatto in pietra e, al centro, fu posta una statua in pietra leccese di San Giovanni Battista adulto, la stessa che ora si trova sulla sommità della Chiesa della Madonna delle Grazie in Piazza. A questo proposito, nel saggio di cui sopra, suggerì in nota che questa statua, al fine di essere salvaguardata, doveva essere rimossa, restaurata e posta in Chiesa Madre e al suo posto sarebbe stato opportuno metterne una copia magari in gesso. Ma, a tutt’oggi nulla è stato fatto; anzi le condizioni statiche sono alquanto peggiorate a causa di varie intemperie.  Successivamente, intorno agli anni 30-40 l’altare fu rivestito in marmo e infine nel 1968 fu distrutto.

Tuo zio Don Realino Mazzotta è stato una delle figure più importanti della nostra comunità. Ci racconti qualcosa di lui?

Nato nel 1907 mi raccontò più volte che nell’estate del 1918 era chierichetto nella Chiesa della Madonna delle Grazie – la Chiesa madre era in restauro. Qui a Veglie era in vacanza il nostro Vescovo Mons. Adolfo Verrienti, il quale propose al giovane Realino di entrare in Seminario con una borsa di studio istituita dallo stesso Verrienti. Realino si prese qualche giorno per pensarci ma quando tornò con i suoi genitori ad accettare l’offerta, il vescovo rispose che la borsa di studio era già stata assegnata, proprio al cugino Orazio Semeraro che, divenuto Sacerdote, nel 1957 fu consacrato Vescovo. Don Realino andò comunque in seminario ma a spese della propria famiglia, ed egli affermò sempre che “Il Signore con una fava prese due piccioni”.

Ne approfitto per sottolineare e ricordare che Mons. Orazio Semeraro, dottore e professore di Filosofia, è un vegliese che partecipò al Concilio Vaticano II dal 1962 al 1965. Non scordiamocelo!

Don Realino è stato vice parroco di Veglie per 25 anni, dal 1931 al 1954, impegnandosi molto nell’Azione Cattolica; era il punto di riferimento della gioventù vegliese. Alla morte dell’Arciprete Mele nel 1954 fu nominato economo curato. Dal 1955 al 1984 è stato Parroco di Villa Baldassarre. Era un prete di altri tempi che ha lavorato “per la salvezza delle anime” fino al 2007 in ottima salute fisica e mentale.

Abbiamo seguito con interesse ciò che ci hai raccontato, sicuramente i nostri lettori vorranno sapere di più. Hai altre storie relative a Veglie e la sua comunità. 

Storie ce ne sono tantissime. Vorrei comunicarvene una in particolare che mi sta molto a cuore, purtroppo con grande amarezza. Si tratta di tre tesori vegliesi che, per ignoranza, sono stati distrutti: gli Organi a canne ubicati nella Chiesa Madre e nella Chiesa del Convento.

Mi raccontava don Realino che, alla fine dell’800 inizi ‘900, vi era questo detto nell’opinione pubblica dei paesi limitrofi: “Tre sono le cose belle: la Chiesa di Guagnano, il Campanile di Salice e l’Organo di Veglie”. Bene, la Chiesa di Guagnano e il Campanile di Salice obiettivamente sono degli edifici architettonicamente molto interessanti e, diremmo, sproporzionati per la loro bellezza rispetto al resto dei rispettivi paesi. Ma l’Organo di Veglie dov’è?  Si trattava, a mio parere, dell’Organo situato nel Convento e posto nella cantoria sopra la porta d’ingresso non più esistente. Probabilmente era stato costruito nella seconda metà dell’800. Alla cacciata dei Frati anche l’Organo, insieme a tante altre opere d’arte, furono disperse!

Per quanto riguarda gli Organi della Chiesa Madre. L’arcivescovo di Brindisi Falces nel 1622, a conclusione della sua Santa Visita decretò, tra l’altro, “Circa Organum provvidebit” (Per quanto riguarda l’Organo si provveda !). Da ciò si deduce che l’Organo a canne, essenziale per la liturgia, o era da riparare oppure, come credo, non c’era proprio. Comunque, a partire da quel secolo è sempre presente in molti altri documenti: si trattava di uno strumento con sette registri e posto sulla Cantoria di fronte all’entrata laterale, come si vede per fortuna dalla foto scattata prima del 1923; anno in cui, secondo i documenti – ahimè -, l’Arciprete Natalizio Mele, poiché l’organo era scordato e la Chiesa era bisognevole di restauri lo vendette all’asta insieme alla Cantoria per recuperare un po’ di denaro. Probabilmente non riuscì a vendere la Cantoria che, per fortuna e grazie all’intuito dell’amico Giorgio Cappello, è quella che tuttora si trova nella Chiesa della Madonna delle Grazie: un bene culturale vegliese da salvaguardare!

Alla fine dell’800, la Giunta Comunale, che aveva il compito di provvedere alle suppellettili per il culto della Chiesa Madre, poiché l’Organo grande era alquanto scordato, deliberò di comprarne un altro usato da una Chiesa di Lecce. Quest’altro strumento più piccolo fu posto nel Coro, cioè dietro l’Altare maggiore, e vi rimase, a memoria d’uomo, fino al 1956. Dopo di ché fu venduto o dato in permuta a qualche rigattiere “perché era scurdatu”. Per concludere, credo che Veglie sia l’unico paese che non ha custodito il proprio Organo a Canne! Se facciamo una carrellata in tutti i Comuni salentini, gli organi antichi sono ancora lì e moltissimi sono stati restaurati, anche con Fondi pubblici, e costituisco un vanto per i propri cittadini.

Auspico che, quanto prima, a Veglie si formi un comitato per la realizzazione almeno di un solo nuovo Organo a Canne per solennizzare le varie cerimonie liturgiche ma anche per essere un attrattore culturale nel panorama del nostro Salento. Solo così si attua la disposizione del Concilio Vaticano II che, nella Sacrosanctum Concilium, recita: “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti.”.

Luigi Mazzotta

(intervista a cura di Marco Palma e Giorgio Cappello)