Posted on: Aprile 19, 2020 Posted by: marco Comments: 0

Mi chiamo Mino Mattia, ho 50 anni, da 26 lavoro per ENI e ho passato gli ultimi anni a viaggiare (per lavoro) in Italia e nel mondo. Quando si è presentata l’occasione di andare a fare il Responsabile dei Progetti dal punto di vista sicurezza, salute e ambiente per il Congo, per via della mia natura di eterno pellegrino non ho potuto non accettare, anzi, l’ho fatto con entusiasmo.

Da due anni vivo nella Repubblica del Congo (da con confondere con la Repubblica Democratica del Congo, confinante ma a sé stante, con un governo e una socialità completamente differente). Fino a quattro mesi fa ho vissuto a Pointe-Noire, la seconda città del Congo con un milione di abitanti ma 4 volte più grande di Roma, in quanto di estende in orizzontale non essendoci palazzi e grattacieli. Lì la vita in centro è simile a quella europea ma via via che ci si sposta in periferia si comincia a vivere la vita africana.

Da quattro mesi, invece, lavoro nel centro della foresta nei pressi di un villaggio che si chiama M’Boundji, dove mi occupo sempre di sicurezza, salute e ambiente nel più grande centro petrolifero del Congo.

Considerando che, attualmente l’Africa non sembra essere molto colpita da questa pandemia, vuoi raccontare ai nostri lettori come mai sei rientrato in Italia?

La considerazione che l’Africa non sia tanto colpita non credo che sia corretta. Credo che i numeri indichino un relativo interesse del virus verso l’Africa, ma come possiamo immaginare, dal punto di vista medico e sociale, è molto difficile fare delle statistiche perché non esistono i tamponi, non esistono le strutture sanitarie, non esistono ospedali, non esiste un bel niente. Quindi, dire che l’Africa non è colpita, o è colpita relativamente, lascia il tempo che trova perché non ci sono le basi per dire se è colpita o meno.

Quello che posso dire è che in Congo ad oggi sono registrati 117 casi e 5 morti (ho ricevuto una comunicazione della nostra Ambasciata), questi sono tutti casi di persone rientrate dall’Europa perché il Congo ha un filo diretto con la Francia, essendone una ex colonia. Tutti coloro che sono stati riconosciuti come positivi al virus sono persone che hanno potuto (e avuto) la possibilità di fare il test. Non si può avere idea di quante persone abbiano potuto contagiare, perché la vita sociale in Congo è differente dal nostro stile di vita. Lì la socialità è qualcosa di inestirpabile, è insito nella loro cultura. Si mangia tutti insieme, si esce tutti insieme, si lavora tutti insieme, quindi, è davvero molto facile che ci sia un contagio massivo, il quale non verrà registrato. Questo è un dato di fatto, quindi, tutti gli europei (o la maggior parte) sono stati rimpatriati per due motivi: il primo è dal punto di vista pandemico che non è controllabile, pertanto per precauzione siamo stati fatti rientrare, il secondo è dal punto di vista delle misure restrittive (in Congo in questo momento c’è confinamento e coprifuoco). Se in Italia alcuni nostri concittadini si lamentano delle misure restrittive, bisogna pensare che in Congo il 90% della popolazione non ha l’acqua corrente, l’energia elettrica, il gas, il frigo, non ha assolutamente nulla. Quindi, è essenziale uscire di casa (capanne) per andarsi a procacciare qualcosa da mangiare, la frutta ma soprattutto l’acqua. È assolutamente impensabile riuscire a fare un confinamento (come quello che intendiamo noi europei) in Congo o in tutta l’Africa.

Quindi, credi che siete stati rimpatriati anche per una questione di sicurezza?

Assolutamente sì! Perché la fame, come ben sappiamo, muove tutte le rivoluzioni. Negli ultimi periodi la necessità di uscire per cercare qualcosa per sopravvivere e l’impossibilità di farlo perché era vietato dalla legge, ha portato a delle piccole sommosse, sparatorie, machete e così via. Oltre al rischio reale della pandemia è stato proprio per il rischio delle sommosse sociali o delle piccole “rivoluzioni” (detto tra virgolette, ndr) che possono colpire soprattutto gli europei. Perché bisogna capire che da questo punto di vista noi bianchi lì siamo visti come gli immigrati, come il corpo estraneo. Il congolese è per sua natura molto tranquillo e molto rispetto di ogni tipo di cultura. Ma quando si tocca il discorso della fame, allora, il bianco potrebbe essere colpito dall’eventuale violenza, considerando che viene visto come il potenziale portatore del virus, là dove di problemi c’è ne stanno già tanti.

Com’è stato il viaggio di ritorno dall’Africa all’Italia?

Il Congo ha chiuso lo spazio aereo già dai primi di marzo e non ci sono assolutamente possibilità di rientrare in Europa o altrove, perché quando un paese africano decide di chiudere un aeroporto, allora, quest’ultimo è chiuso e basta. Non c’è modo di trovare la scappatoia o il cavillo legale. In questo periodo sono stati effettuati due voli con l’ambasciata italiana, mediante accordi internazionali.

Per noi di Eni il discorso è stato diverso, in quanto l’azienda è lì da 51 anni e ha migliaia di congolesi che lavorano per essa, c’è un rapporto differente. Eni è riuscita a ottenere dei permessi per dei voli privati (voli charter, ndr) che servono esclusivamente a portare via il personale Eni. Sono arrivato sabato notte su un aereo di 14 posti, tutti italiani e colleghi. Da Roma a Veglie, Eni mi ha messo a disposizione un’auto con conducente.

Cosa hai provato nel vedere Veglie completamente deserta?

Più che Veglie è stato stranissimo fare quei 600 km da Roma a Veglie. In tutte quelle ore avrò visto 4 auto. Vedere l’autostrada e le superstrade senza il minimo traffico sembrava qualcosa di surreale, sembrava un film distopico e fantascientifico. A Veglie siamo arrivati alle 5 del mattino, quindi, l’impatto non è stato forte, in quanto a quell’ora nella domenica di Pasqua non ci si aspetta di vedere molta gente in giro. Ormai sono 4 giorni che sono a casa e quando mi affaccio (raramente) sul balcone, effettivamente, mi fa un certo senso non vedere passare nessuna macchina. Sicuramente, non è stato bello salutare mio padre e mia sorella dal balcone, infatti, essendo arrivato da un paese straniero sono in auto quarantena preventiva. Per quanto mi riguarda è assolutamente fondamentale non essere io un vettore del virus verso i miei parenti o chiunque altro.

Tornando indietro, com’è stato il viaggio dall’Italia al Congo?

Quello è stato molto differente, siamo partiti con un volo dell’Ethiopian Airlines e all’arrivo a Pointe-Noire eravamo 7 italiani e 7 cinesi, siamo stati portati in un’area specifica dell’aeroporto dove hanno verificato oltre che i documenti anche la nostra temperatura corporea. Siamo stati lì per delle ore e solo in seguito ci hanno fatto uscire da un’uscita secondaria. Siamo stati scortati dalla polizia e dai medici in auto incolonnate come se fosse un film. Siamo stati 15 giorni ognuno nel proprio appartamento sotto controllo medico e della polizia (lì la polizia non è come quella italiana).

Essere italiani in africa in questi mesi, come è stato?

Più che essere italiani è essere bianchi. Che tu venga dall’Inghilterra, dalla Francia o dall’Italia per un africano non c’è differenza, sei potenzialmente qualcuno che può sconquassare la loro vita sociale o distruggere un intero villaggio. Perché se il virus dovesse arrivare lì in pieno come da qui da noi, la metà della popolazione africana potrebbe essere decimata.

Molti giornali dicono che il popolo africano potrebbe salvarsi in quanto ha una popolazione molto giovane e questo virus intacca principalmente gli anziani. Al di là dei dati scientifici, sicuramente importanti, pensi che il comportamento diffidente degli africani sia giustificato?

“Potrebbe”! Siamo nell’ordine delle possibilità. In Italia questo tipo di ragionamento ha un senso. Ma se al covid-19 ci aggiungi la mancanza di igiene, la mancanza di medicine e di strutture sanitarie, la possibilità di paludismo e di malaria, più tutti gli animali che ci sono e le zanzare, allora, non ha molto senso il “potrebbe”. È la somma di tutti i rischi e i pericoli che ci sono in Africa che determinano la pericolosità estrema del covid19, non è solo il virus, fosse solo quello sarebbe affrontabile, ma ci sono altre decine di complicanze che andrebbero a sfasciare tutto.

Per lavoro o altro, tornerai in Africa?

Sì, assolutamente! Sono pronto ad andare in qualsiasi posto in cui la mia società mi chieda di andare. Anche perché abbiamo visto che nessun posto è sicuro, paradossalmente paesi come l’Italia, la Spagna o gli Stati Uniti sono quelli meno sicuri, non possiamo più dire “lì c’è rischio e qui no”.

Ieri a Roma, precisamente a Torre Maura, alcuni migranti hanno protestato all’interno di un certo di accoglienza, incendiando materassi e rompendo vetri, solo perché è stato negato loro di uscire fuori dalla struttura. Cosa ne pensi?

Essere “reclusi” è a prescindere qualcosa che stressa. Noi italiani abbiamo una grande caratteristica: dimentichiamo facilmente. Un mese fa ci sono state diverse proteste nelle carceri italiane, purtroppo, si sono registrate anche delle evasioni. La situazione di reclusione coatta è qualcosa che mette sotto tensione. Se da un lato posso capire un gruppo di emigrati che ha delle difficoltà culturali nel comprendere alcune determinate circostanze, dall’altro non giustifico per nulla chi ha approfittato della circostanza per evadere dalle carceri. Non c’è paragone tra quello che è successo nelle carceri e quello che è successo nel centro di accoglienza.

Senza andare troppo lontano, anche a Veglie c’è chi esce senza motivo. Anche quella è un’evasione e un non voler accettare delle regole che sono imposte per il benessere di tutti. Credo che l’unica forma di razzismo giusta sia quello contro l’idiozia, c’è gente che fa finta di uscire con il cane, chi va dall’amante, chi va in giro in bici. Molti italiani sono stati denunciati perché hanno fatto esattamente (in piccolo) quello che è stato fatto nel centro di accoglienza.

Questa domanda per noi è importante perché vogliamo vedere com’è il vegliese che si apre al mondo. Parlaci di che cosa è l’Africa oggi e di come si vive lì. Una volta che il vegliese riesce a raggiungere la terra più lontana conosciuta, come la interpreta, come la vede e che opinione si fa di essa?

Credo che l’Africa sia da considerare come un bambino che ha delle enormi potenzialità, al quale bisognerebbe avere il coraggio di insegnargli la strada da fare, a camminare, non tarpargli le ali e dargli tutti gli strumenti possibili (dalla tecnologia, alla cultura, all’istruzione) per poter andare da solo.

L’Africa è un bambino che noi europei e noi occidentali non abbiamo mai fatto crescere, perché ci fa comodo che resti tale. Perché il bambino lo puoi controllare, lo puoi umiliare, lo puoi considerare cosa tua e ha sempre il terrore dei più grandi. Nel momento in cui l’Africa riuscisse a prendere coscienza delle proprie potenzialità per noi non ci sarebbe scampo, me lo auguro ma non credo sarà così veloce.

Finalmente ti ritroviamo sui social, dopo un periodo di detox digitale, per quale motivo ci sei tornato?

Sono uscito dai social 9 mesi fa, perché non sopportavo più né l’idiozia, né l’ignoranza dominante, tantomeno l’assoluto nulla (di propositivo e di positivo). Sia chiaro, nei social vedo pochissimo tutt’ora. Sono rientrato su Facebook semplicemente perché era il modo migliore e più veloce per comunicare con quelle decine di persone interessanti che ho nella mia lista (pur avendo circa 2000 amici, quelli interessanti ritengo siano una cinquantina). Quello che posso dirti in anteprima è che non appena finirà questa brutta storia (dopo questo brutto film) io uscirò di nuovo da Facebook e non ci rientrerò mai più. Anche perché in questo periodo la situazione è degenerata.

Hai raccontato di essere stato in quarantena in Africa (dove è stato sicuramente difficile) e ora lo sei anche qui. Cosa consiglieresti a tutte quelle persone che vivono questa “quarantena prolungata”, avresti qualche consiglio o trucchetto per passare meglio la giornata?

Bisogna essere un po’ realisti. Alle mie spalle ci sono centinaia di libri, quindi, avrei la possibilità di approfondire alcuni studi, alcune teorie o più semplicemente leggere un libro di Camilleri. Se hai già delle basi su cui poggiarti diventa facile, ma se invece il tuo modus-vivendi è sempre stato uscire per andare a fare colazione o aperitivo diventa complicato.

Però, secondo me, potrebbe essere l’occasione giusta per poter fare, provare o sperimentare qualcosa che non si è mai fatto. Non hai mai letto un libro? Provaci! Non ne hai? Chiedilo! Ce ne sono tanti in giro, io sarei disposto a prestarne decine se qualcuno mi chiedesse di leggere un libro per la prima volta. Bisogna attrezzarsi e non avere la paura di fare qualcosa che non si è mai fatto, come anche scrivere una lettera a qualcuno. Provare a mettersi in gioco, in fondo può succedere a chiunque nella vita (penso a chi è nel letto di un ospedale o a chi è detenuto, peggio ancora se innocente).

La grande differenza tra noi e gli animali dovrebbe essere proprio la capacità di adattamento. Se non sei capace di adattarti hai dei problemi di fondo, sei tu che sei difettoso.

 

Intervista a cura di Marco Palma e Giorgio Cappello