Una piacevole chiacchierata con Cosimo Savina sulla potenza della fotografia e su quanto sia importante per l’arte contemporanea non perdersi dietro al semplicismo della tecnologia.
Chi è Cosimo Savina?
Sono nato a Veglie nel 1955, da cinque anni sono tornato alle origini, dopo aver vissuto cinquanta anni a Torino.
Parliamo del tuo lavoro
Ho cominciato a fotografare come amatore nel 1977 e professionalmente nel 1982, la fotografia per me è sempre stato un mezzo di espressione. La prima mostra del 1986, realizzata insieme all’amico G.N., aveva come titolo “L’immagine immaginata”. A questa mostra ne sono seguite molte altre, tra le più importanti quelle a Roma e Vienna, al Museo di Maglione, a Lecce, a Torino e Bergamo, oltre all’antologica del 2018 al Cosmopolitan Art Center di Veglie.
Nel 2002 ho realizzato una galleria nel mio studio dove ho curato ben ventisette mostre degli allievi dei miei corsi di fotografia, indirizzati all’espressione artistica. Nella mia professione mi sono occupato di teatro, danza ed eventi, non dimenticando mai la ricerca artistica personale portata avanti sempre con grande passione.
Oltre ai corsi organizzati da me, sono stato per due anni docente dell’Istituto di Cinematografia “Fellini” di Torino.
Il lavoro di gruppo mi ha sempre affascinato e nel 2006, insieme agli allievi più interessati, ho creato il “Gruppo EXILLES 32”, formato da dieci elementi (me compreso) con il quale abbiamo realizzato quattro progetti nell’arco di dieci anni. Il più importante si intitola “Come mi vedono gli altri”.
È importante come alcune tappe mancate incidano poi sulla vita di ognuno di noi. Può sembrare banale, ma non aver avuto una fotografia ricordo nelle classi elementari a causa dell’insegnante, mi ha portato poi a metabolizzare questa mancanza riversando sulla “fotografia di gruppo” un’importanza particolare. Tanto da realizzare nelle fotografie di matrimonio dei gruppi originali e nelle fotografie di teatro e danza (dove tutti, attori e ballerini, sono abituati ai primi piani) a introdurre la fotografia di scena collettiva, cosa molto apprezzata da coreografi e registi.
C’è un possibile ritorno all’analogico in un mondo completamente digitale?
Premetto che la mia cifra stilistica è fotografare con il sistema pellicola – stampa, perciò penso che la fine dell’analogico è solo per chi non ha voglia di sporcarsi le mani, aggiungo che il digitale rappresenta un grosso problema proprio perché si perde la manualità e la sua importanza. “La tecnologia bisogna usarla e mai farsi usare” è la raccomandazione che ho sempre fatto agli allievi. Nonostante questo non possiamo chiudere gli occhi davanti all’avanzamento tecnologico. Il mio approccio con la fotografia digitale è avvenuto nel 2003, quando grazie alla collaborazione di un amico ho realizzato un’opera composta da duemila foto. Durante la pandemia, decisi di aprire gli scatoloni degli scarti e ho visto tutto quello che avevo messo da parte in quarant’anni di ricerca, da lì è nato un progetto avente come tema il “Corpo indefinito”. Alla luce di questa rivisitazione degli scarti, vi voglio comunque far riflettere sulla differenza sostanziale tra analogico e digitale, dove il primo rimane memoria in standby disponibile ai ripensamenti e il secondo è memoria a perdere.
Parliamo delle tue opere, dove trovi l’ispirazione?
Nella vita. In fondo l’ispirazione cos’altro non è se non l’osservazione e la riflessione sulla nostra stessa esistenza.
Qual è la tua opera preferita e quella che, invece, non ti è piaciuta?
Alla seconda domanda non posso rispondere perché mi piacciono tutte. È difficilissimo sceglierne una ma posso raccontare la meraviglia di realizzare la foto “Foglia di profilo”. Trovare il momento e l’angolazione giusta per ottenere una foto difficilmente immaginabile è stata una grande gioia. Sono alla continua ricerca dell’unicità del momento ed è proprio grazie alle foglie che ho sviluppato il concetto che è meglio rappresentato nell’opera “Il particolare ritratto” (2003), dove ho scoperto che l’unicità trascendente di ogni individuo non è altro che la bellezza dell’umanità.
Qual è il tema dominante nelle tue opere?
Sicuramente la “leggerezza” è uno dei temi dominanti di tutta la mia opera. Togliere quei pesi che rendono più difficile la vita è stato ed è tutt’ora il mio tentativo, che ritengo raggiunto in buona misura, realizzando il superamento di ostacoli fisici e mentali.
Com’è stato tornare e decidere di tornare? Come hai trovato Veglie?
Qui sento la forza delle radici, anche se ammetto che il primo anno ero un po’ spaesato poi ho deciso di affermare la mia personalità e contemporaneamente trovare equilibrio nei rapporti con gli altri. Inoltre, credo che dove nasciamo rimane un’impronta energetica che non possiamo trascurare. Non ho trovato Veglie migliorata, ma ho trovato sicuramente delle persone migliori.
Intervista a cura di Marco Palma e Giorgio Cappello
Foto: Giorgio Cappello