Posted on: Dicembre 31, 2021 Posted by: marco Comments: 0

Stiamo per raccontarvi una delle parentesi più belle della storia della nostra cittadina.
In quegli anni Veglie non era come la conosciamo. Si prendeva via Madonna dei Greci o si andava verso quella che oggi è la zona Palazzetto per andare a lavorare in campagna, non per tornare a casa. Infatti, quelli che oggi sono due quartieri residenziali, all’epoca erano per la maggior parte solo terreni con file e file di alberi d’ulivo e macchia mediterranea. Non c’erano pub e in pochi potevano permettersi di andare a mangiare fuori ogni fine settimana. C’era però un luogo che accomunava tutti, un luogo ormai chiuso e inaccessibile, addirittura a rischio crollo, per il quale nel corso degli anni a più riprese, da più parti, è stata chiesta la riapertura, ma senza successo. Un luogo che è rimasto impresso nell’immaginario collettivo vegliese: il Cinema Caputo. A raccontarci questa storia è Antonio Senafè, classe 1943, che per qualche anno è stato operatore cinematografico del Caputo. Ovviamente, non abbiamo la presunzione di raccontarvi tutta la storia di quel cinema in poche righe, vogliamo però farvi fare un altro salto nel passato. Quindi, chiudete gli occhi e fate un respiro. Siete nella Veglie del 1969, fuori dalle porte del Cinema Caputo c’è la fila, sbrigatevi se non volete perdere il posto. Si spengono le luci, suona la campanella… buona “visione”.
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Ho lavorato per il Cinema Caputo dal 1969 al ’71 e poi per il Cinema Arena per un’estate nel ’73 o ’74, non ricordo esattamente quale. In quegli anni i Cinema erano molto frequentati, erano gli unici posti dove poter passare qualche ora di svago. All’epoca, infatti, non c’erano ancora molte tv e si usciva per passare qualche ora in compagnia. Durante la settimana c’erano due spettacoli al giorno, mentre la domenica tre o quattro. I film più in voga in quegli anni erano quelli di Gianni Morandi, Lando Buzzanca, Romina Power, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Totò, ma c’erano anche film spagnoli, western americani o film di guerre. Le pellicole erano sia in bianco e nero che a colori, tutti con sonoro e quelli stranieri erano tradotti. Al Cinema Caputo avevamo una cinepresa con la lampada a carbone, mentre al cinema di Leverano la cinepresa era elettrica. Il proprietario di entrambi era Polito Antonio e a gestirlo era Salvatore Renis, suo genero. Io lavoravo in campagna, finivo alle 12 e subito dopo andavo al cinema per assemblare le parti, quel mestiere mi piaceva molto, era una passione per me, inoltre, mi permetteva di guadagnare 40 mila lire al mese. Entravo da una porticina sul lato sinistro, che ora è stata murata e da lì salivo sopra, nella stanza della macchina.
Una volta dentro potevi comprare i semi o le noccioline. Subito dopo ad aspettarti c’era la “maschera” (personale di sala, ndr) che si occupava di portare le persone ai posti liberi aiutandosi con delle torce. I film duravano circa un’ora e mezza e la pausa tra una pellicola e l’altra richiedeva pochissimi minuti, quindi, nessuno usciva dalla sala tra un tempo e l’altro. Inoltre, a differenza di quello che credete voi ragazzi di oggi, non era affatto un luogo dove conoscere ragazze e questo perché non era frequentato dalle donne, quelle pochissime che ci andavano lo facevano con i mariti.
Ricordo che la pellicola arrivava suddivisa in parti e io le assemblavo creando due bobine (tre parti in una e due parti in un’altra – primo e secondo tempo, ndr). Prima dell’inizio dello spettacolo si spegnevano le luci e suonava la campanella, al contrario al cambio della bobina (secondo tempo, ndr) il suono della campanella era accompagnato dall’accensione delle luci. Le bobine avevano due lati, su uno c’era il suono e sull’altro il video. A lato di ogni nastro c’erano dei fori, a volte uno si strappava e il nastro saltava, allora, dovevo fermare la macchina e tagliare quel pezzettino che penzolava, in modo da non farlo incappare negli ingranaggi. Ricordo che non era bello quando succedeva, perché la gente fischiava e dava la colpa all’operatore ma non lo era! Infatti, oltre a eventuali difetti o malfunzionamenti della macchina c’è da dire che in quegli anni le pellicole erano noleggiate, quindi, prima di me erano state usate da altri operatori di altri cinema pugliesi. Pensate che per “guidare la macchina” (utilizzare la cinepresa, ndr) serviva un patentino. Ogni domenica sera, dopo l’ultimo spettacolo, era mio compito disassemblare le bobine e ricomporre le varie parti che ci avevano dato le case di distribuzione (es.: Titanus, ndr), dopodiché molto presto la mattina del lunedì si andava a Bari per lasciare i film proiettati in settimana e prenderne altri da proiettare per la successiva (prendevamo 6 nuovi film a settimana).
Il cinema ospitava circa 200 persone e ci veniva davvero tanta gente, in settimana staccavamo 100-150 biglietti ma di domenica si arrivava a riempirlo. All’inizio degli anni settanta a Veglie c’erano quattro cinema, il Cinema Caputo, il Trieste, il Vittorio Emanuele e il cinema Arena (che era all’aperto e apriva d’estate). Tutti lavoravano molto, poi un po’ alla volta chiusero (Polito affittò le altre strutture, ndr) e restò il Caputo e l’Arena.
Andare al cinema era un passatempo e a differenza di oggi nei vegliesi c’era più entusiasmo, credetemi era bellissimo quando fuori dalla porta vedevi la fila per entrare.
Da quando manca il cinema si è perso qualcosa, la sua assenza ha creato un vuoto.

Intervista a cura di Marco Palma e Giorgio Cappello
Foto di Fernando Leardi (veglienews.com)