Non chiamatela artista. A Benedetta Pati, infatti, non piace definirsi tale. Classe 1993, ha iniziato a scrivere poesie quando noi di ViviVeglie (seppur più grandi di lei) eravamo ancora indecisi su quale colore dei Power Rangers dovevamo essere. Crescendo è diventata una professionista del settore culturale. Ha scritto tre libri, partecipato a diverse opere teatrali e lavora per la salentina Accademia Mediterranea dell’Attore.
Da dove nasce la passione per la scrittura?
È una domanda che mi fanno spesso e alla quale mi è sempre difficile rispondere. So che mio padre aveva una predilezione per la lettura e la scrittura (e recentemente ho scoperto che anche mia madre!!!) perciò probabilmente è un talento che mi è stato trasmesso da loro. Non c’è un episodio particolare in cui ho deciso di cominciare, da bambina scrivevo poesie su tutto ciò che mi capitava: dalle maestre, ai miei fratelli, ai cani, a poesie dedicate direttamente a Bush per chiedergli di fermare la guerra in Afghanistan (ma allora ero già più grandicella).
Quanto ha influito tua nonna nel tuo percorso artistico?
La figura di tutti e quattro i nonni è stata fondamentale nella mia vita. Ne ho conosciuti solo tre ma in qualche modo anche il nonno morto prima della mia nascita mi ha lasciato una cosa indispensabile: una storia da scrivere. Sin da piccola mi è sempre piaciuto ascoltare le storie degli anziani, le percepivo come qualcosa di vagamente vicino, mi piaceva provare a immaginarle. Ecco, i miei nonni sono stati i più sinceri narratori che potessi avere; uno con la leggerezza, l’altra con la determinazione e l’altra con l’onestà mi hanno insegnato l’arte dell’ascolto. Chissà che la passione per la scrittura non venga anche da qui… Poi, per una questione di tempo e di età, Ndata è stata la nonna che ho vissuto di più e alla quale devo ogni cosa. Tutto quello che faccio ormai è preceduto da un pensiero, quasi un dialogo, un botta e risposta tra me e lei.
Parliamo della tua produzione letteraria attuale.
Al momento ho pubblicato un libro di poesie e due biografie. Rispetto alle poesie (Unalgiorno, ndr), si tratta di una raccolta che rappresenta poco la me di oggi. Mi è sempre piaciuto definirlo come “un esperimento”, un contenitore di emozioni frutto di una Benedetta molto più giovane, astratta e incantata.
Successivamente, ho pubblicato i due testi biografici scritti su richiesta dei familiari dei protagonisti (che ringrazio tanto!). Farlo è stato davvero un’avventura. Il primo (Io, Leonzio Quarta: storie e cunti di chi ha vinto la fortuna, ndr) mi ha catapultato in una serie di dialoghi surreali in cui ho scoperto storie incredibili sui tempi passati: Leonzio mi ha dato la possibilità di vedere e “riscrivere” delle storie quasi sconosciute.
Il secondo invece (Una vita tra le vite, ndr) ha avuto una responsabilità e un peso diversi: se nel primo parlavo faccia a faccia con il diretto interessato, nel secondo parlavo di una persona che non c’era più e farlo senza neanche averla conosciuta mi ha messo di fronte a una vera sfida emotiva e letteraria. Raccontare di Raffaele è stata una grande responsabilità nei confronti della famiglia e di questo mi sono accorta quando ho pensato per la prima volta: “Per i suoi cari questo libro sarà un modo per sentirlo ancora vicino”.
Negli ultimi tempi scrivo molto meno, credo che il mio modo di percepire il testo stia cambiando. Adesso vorrei puntare sulla narrativa. Sì, ho un racconto nel cassetto (che a dirla tutta ha sforato i limiti del racconto in senso stretto) ma non lo so se crescerà con me oppure se un giorno deciderò di liberarlo.
Quali sono le tue influenze letterarie?
Sicuramente Alda Merini. Avevo 15 anni quando ho letto per la prima volta i suoi testi e lo feci durante un laboratorio teatrale. Poi ci scrissi un monologo che misi in scena poco dopo. Da lì cominciai a leggere molto sulle sue esperienze e rimasi turbata dalla sua profondità e integrità. Assieme alla Symborska, per me è come una mamma poetica. Come narrativa leggo molto Stefano Benni, adoro (e invidio!) la semplicità con cui riesce a raccontare la vita. Un libro che invece considero una bibbia letteraria è “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer. È un racconto che mi accompagna da 10 anni e che credo di aver consigliato a tutte le persone con cui ho parlato di letteratura. Io lo leggo almeno una volta l’anno.
Parliamo di teatro. Dal tuo primo incontro a oggi.
Il mio primo ricordo del teatro risale a quando, in seconda elementare, preparammo la recita su “La cummare furmiculicchia”: io ero proprio la protagonista, la cummare. Da adolescente invece, i miei primi spettacoli amatoriali sono stati: “Novecento” con la compagnia Calandra e “Antigone” con il Teatro delle Rane. Col tempo poi ho proseguito solo con il Teatro delle Rane e l’incontro con loro merita un racconto: li ho conosciuti in un momento molto difficile nel quale ero indecisa sul mio futuro: andavo in giro per l’Italia a fare provini, provavo test in tutte le università, cercavo città in cui vivere e gente nuova con cui condividere le mie passioni. Fu allora che li incontrai: dopo il primo giorno di laboratorio ero piena di dubbi (e di lividi! I lividi più belli!) ma la premura di una telefonata di Giovanni (il socio più “grande” del gruppo) mi fece scegliere di continuare. Da allora non ho mai saltato un incontro finché non ho voluto proseguire verso il teatro professionale e ho deciso di fare un “salto” verso una formazione più completa, quella dell’Accademia Mediterranea dell’Attore (AMA, ndr) con la quale ho realizzato i miei primi spettacoli da allieva-attrice e poi da attrice professionista.
Si vive di cultura? Consiglieresti il tuo percorso altri giovani?
Sì, si vive di cultura ma è molto importante chi incontri, cosa scegli e come scegli. Bisogna essere capaci di cogliere le occasioni, di dire sì e no al momento giusto. È un mondo in cui si vive di questo. Lo consiglierei? Se ripenso alla mia esperienza sino ad oggi sì, lo consiglio. Io ero convinta che avrei fatto altri mestieri, ma quando ho firmato i miei primi contratti da autrice o da attrice (Pupe di pane, produzione AMA, ndr) ero così felice che decisi che mi sarei portata dietro quella felicità per lungo tempo. È vero, è un mestiere che bisogna sapersi guadagnare con umiltà, pazienza e che spesso è più faticoso che premiante (parlo soprattutto in termini economici), però lavorare nell’ambito della scrittura e del teatro permette di avere sempre idee in movimento e questo è ciò che appaga di più. Poi… Adesso la penso così, chissà che tra dieci anni io non sia in coda per il posto fisso!
Sentiamo, dove e come ti vedi tra dieci anni?
Dieci anni fa, pensando al futuro, non avrei mai detto: “Farò l’attrice a Lecce!”. Piuttosto avrei risposto: “Sarò una volontaria in Sud America”. Quindi, chissà… Probabilmente mi troverete ancora in Salento (terra che ho imparato ad amare solo quando l’ho avuta lontana), chissà…
Quindi il cinema non ti attrae?
Il cinema è meno “istintivo” del teatro (istintivo nel senso di istinto, di selvaggio, di animale) e per come mi vedo io adesso questo potrebbe essere un limite. La verità è che poche volte mi è capitato di girare scene cinematografiche in senso stretto ma questo non vuol dire non mi attragga. Certo, cinema e teatro sono due mondi completamente diversi e ne ho avuto la prova quando ho fatto il mio primo spettacolo in streaming (Il cavaliere senza terra, TPP – AMA, ndr). È stata un’esperienza molto entusiasmante ma mi è servita a chiarire ancora di più nella mia testa la netta differenza tra cinema e teatro: due arti diverse, che meritano di essere viste con mezzi diversi, con strumenti diversi e soprattutto con occhi diversi.
Progetti futuri?
Sicuramente lavorerò ancora sullo spettacolo di cui sopra e su altre produzioni. Come progetti in senso stretto invece, sempre con AMA ci sono in ballo diverse attività che puntano alla rigenerazione urbana e culturale delle periferie oltre a tantissime altre idee che il periodo di isolamento mi ha permesso di sviluppare. Una di queste? Continuare con la ricerca di storie tra gli anziani del mio paese per poi far diventare questa raccolta una piccola enciclopedia di memorie (non vecchie ma antiche!).
Quanto ha inciso il covid-19 sul mondo della cultura?
Da un punto di vista professionale molto. Abbiamo assistito a una sospensione artistica totale che, se prima era chiamata protezione, adesso mi sa quasi di dimenticanza. Questo è brutto, frustrante. Personalmente ho avuto la fortuna di continuare a lavorare (per quanto il mio lavoro si sia completamente digitalizzato) però mi manca vedere, sentire e toccare “il teatro”. Mi manca essere parte di un gruppo, sentirmi spettatrice, imparare dal lavoro degli altri.
Aggiungo anche che da un punto di vista strettamente individuale questo blocco (soprattutto il primo) mi è servito molto. Me ne sono accorta solo a posteriori ma l’isolamento (personale, affettivo e sociale) mi ha fatto riscoprire l’importanza di alcune dimensioni che data la velocità dei tempi stavano perdendosi: la famiglia, la vita di paese, il dialogo con gli anziani, le piccole priorità della vita. Durante la quarantena ho fatto delle cose che non mi sarei mai concessa di fare prima ad esempio zappare la terra o scrivere lettere, ecco, questi momenti sono stati una vera e propria rigenerazione (inconsapevole rigenerazione).
Ti piacerebbe fare la regista?
Non ci ho mai pensato ma, perché no? Forse prima della regia punterei a imparare a scrivere per la scena, sono in attesa di una forma per la mia buona storia.
A tuo avviso, avrebbe senso di esistere un teatro a Veglie?
Mi piacerebbe molto che ci fosse un teatro inteso proprio come struttura, quello che mi preoccupa però è l’assenza di spettatori. Purtroppo, molti seguono una mentalità per cui: “Il biglietto al cinema lo pago, ma perché pagare il teatro?”. E questo manda a monte anni e anni di progetti e di idee…
Non credo ci sia poca sensibilità culturale, ma poca educazione alla cultura in senso ampio (e quindi al teatro, alla letteratura, alle arti performative…). Mi immagino spesso una materia scolastica che abbia queste caratteristiche…
Qual è il rapporto che c’è tra Veglie e la cultura?
Penso che ci sia una piccolissima fascia di vegliesi che ha a cuore la cultura (ma molti di loro ormai non sono più in paese), una seconda fascia a cui proprio non interessa e un’altra fascia che vorrebbe avere maggiore accesso alle attività culturali in generale ma che non ha stimoli e non si lascia stimolare. Mi piace pensare quest’ultima fascia, fatta da gente di diverse età, come una speranza. Certo, ci sarebbe bisogno di un cambiamento radicale, di una ricerca di una nuova identità, di un interesse acceso (rimango sempre interdetta quando, nel mio stesso paese, mi viene detto “Che lavoro fai davvero?” o “Io cambierei mestiere…” perché, per quanto siano frasi a cui sono abituata, ci si aspetta quasi che il paese sia una grande famiglia, una protezione, e invece…). Credo che dare delle risposte teoriche non basti, ci sarebbe bisogno di attività, di progetti, di idee, di nuove collaborazioni che vedano in prima linea tutte le generazioni. Bisogna agire prima che gli spazi e la gente interessata a questa rinascita svaniscano del tutto, c’è bisogno di squadre e di confronti, di coraggio fondamentalmente.
Intervista a cura di Giorgio Cappello e Marco Palma