Ascoltare Filippo mi ha portato alla mente una vecchia canzone dei B-Nario, “la musica che piace a noi”. Per certi versi la sua storia è molto simile al testo di quella canzone, che per non annoiarvi non starò qui a trascrivere per intero. Quel brano parla di un uomo che comincia a suonare uno strumento sin da bambino e che cerca di farsi strada nel difficile mondo dello spettacolo. Filippo, a dispetto di tutto, è riuscito a farlo. È riuscito a emanciparsi dalla più classica delle storie di provincia italiana, realizzandosi sia sotto il profilo professionale che artistico. È riuscito a trasformare il sogno in qualcosa di concreto e ogni giorno lavora per renderlo ancora più grande ed emozionante. Il Filippo di oggi ha negli occhi ancora quello che aveva quando alle elementari cercava di insegnarci a suonare il tamburello. La sua caparbietà non è cambiata, la sua passione è cresciuta e ora, proprio come in quella canzone, continua “con lo stesso sogno… fare la musica che piace a noi”.
Questa è la sua storia…
Filippo Renna, classe ’89 nato a Venezia, si reputa un “vegliese doc” perché ha avuto il piacere di crescere in una cittadina che oggi dice di poter solo ringraziare, infatti, ci tiene a sottolineare come “ognuno di noi quando cresce in un posto ci mette del suo ma è anche la comunità che lo circonda che influisce sul suo percorso, quindi, mi ritengo orgogliosamente vegliese.”. Dopo il diploma si trasferisce a Pavia per studiare, si laurea presso l’Università di Milano e oggi lavora come informatore medico scientifico. Negli ultimi anni si è impegnato a perseguire il suo sogno di fare musica che lo ha portato a suonare in mezza Europa (Estonia, Lituania, Lettonia, Olanda, Francia, Slovenia, Turchia, Svizzera, Belgio, Spagna, Portogallo) e nel Nord America (Los Angeles, Hollywood, Las Vegas, Naples).
Parliamo di Veglie, cosa rappresenta per te? E cosa provi a viverci lontano?
Non so se le sensazioni che provo siano o meno comuni a chi in generale, per un motivo o l’altro, si sposta dalla propria terra. Come dicevo prima, sono molto legato a Veglie e questo credo che dipenda molto anche dall’epoca in cui l’ho potuta conoscere e forse tornandoci vedo che sotto certi aspetti è cambiata molto. Forse col tempo siamo noi ad essere cambiati. Infatti, oggi vedere Veglie da lontano fa un certo effetto; il ritorno è sempre commovente, sia nel rivedere i familiari e gli amici più stretti ma soprattutto perché rivedo i miei carissimi nonni. Un altro motivo che mi spinge a tornare è la gioia di fare un salto in quelli che sono i ricordi dell’infanzia, degli anni vissuti nella fase più bella della vita, ritrovandomi comunque davanti a ciò che si è lasciato ma con qualche aspetto diverso e credo che sia naturale dato che sono passati dieci anni. A volte non ci facciamo caso ma sono periodi piuttosto lunghi e tante cose possono cambiare, si tratta di cambiamenti che vediamo e viviamo anche dentro noi stessi.
Che cosa ti manca? Se ti manca qualcosa…
Non vorrei essere superficiale ma la prima cosa che mi viene da dire sono i colori, i sapori e le sensazioni tattili, tutte cose che si apprendono sin dalla tenera età, che si imprimono dentro di noi in maniera indelebile. Quando torno a Veglie, una delle prime cose che faccio è andare al mare perché per me è sempre stato un elemento troppo importante.
Figlio del Salento, ma soprattutto di Veglie, come vedi la figura di Filippo Renna, più in dettaglio dei Domo Emigrantes tra Italia ed estero?
Vi ringrazio per questa domanda perché mi dà, in qualche modo, la possibilità di descrivere il mood che ci siamo dati con il resto del gruppo. Quando con Stefano Torre ho fondato i Domo Emigrantes, il nostro intento era quello di andare a conoscere meglio non solo le nostre tradizioni ma anche quelle delle altre culture che si affacciano sul Mediterraneo. Questo ci avrebbe permesso di provare a vedere se c’erano i presupposti per tentare una fusione tra la nostra cultura e quella di altre civiltà. Ed è proprio lì che si inserisce il nostro progetto, nella ricerca delle caratteristiche comuni (sia culturali che sonore) di popoli così diversi. Lo abbiamo fatto perché, secondo noi, è compito di ogni individuo diffondere la storia e l’identità del proprio territorio di appartenenza. Questo scambio, ovviamente, deve essere reciproco. Quando andiamo in tournée all’estero a “rappresentare” l’Italia, lo facciamo con una certa consapevolezza che è basata sulla voglia di unire, collegandoci a temi come razzismo, immigrazione, disuguaglianza, ecc.. L’unità è alla base di tutto, la ricchezza delle differenze tra popoli è quello che ci spinge ad essere più propensi ad una condivisione. Per raggiungere tale scopo partiamo dalla consapevolezza di ciò che stiamo andando ad offrire, la musica, ma è anche importante che dall’altra parte chi ci ascolta sia capace di farlo abbracciando quanto l’artista mette in condivisione.
Parlando dei Domo Emigrantes, raccontaci la vostra storia. Com’è nato questo progetto che vi ha portato così lontano?
Appena trasferito a Pavia, mi resi subito conto che sarebbe stata una fase di cambiamento, un po’ come credo lo sia per tutti in una tale situazione. Ovviamente non sarei potuto partire senza i miei tamburelli e pensai di pubblicare un annuncio su un sito di musicisti. Fui contattato da Stefano Torre il quale mi propose di suonare all’interno del gruppo “Terra del Sole” (fondato dai suoi genitori per promuovere le tradizioni siciliane e lombarde). Da lì, dopo qualche tempo, nell’ottobre 2009, invitati a suonare durante un aperitivo a Milano decidemmo di avviare il progetto Domo Emigrantes, in trio con il fisarmonicista di allora Luca Consolandi. Il nome Domo Emigrantes deriva dal latino e significa “emigranti da casa”. A dir la verità all’inizio Stefano non ne era molto convinto, ma da quel primo spettacolo sono passati dieci anni e il nome è rimasto quello.
In pratica sei riuscito a contaminare Pavia e non a farti contaminare.
Sì, ho cercato di mantenere saldo il mio accento.
Filippo, torniamo indietro di 21 anni. Alle elementari contagiasti tutti con i tuoi tamburelli, all’epoca tutti ne volevano uno. Se ti dicessi “Terre Neure”, cosa ti ricorda?
Eh! Con le Terre Neure è nato tutto. Mio zio, Salvatore Vetrano, fu uno dei fondatori di quest’associazione culturale e grazie a loro conobbi la pizzica salentina. Allora ero molto piccolo, avevo circa cinque anni e ricordo che partecipavo a molti concerti di diversi gruppi in giro per il Salento. Fu proprio lui a regalarmi il mio primo tamburello, costruito da un maestro di Nociglia, tale Mesciu Nninu. Ricordo ancora il giorno in cui me lo regalò, mi colpì tantissimo la pelle e il suo odore. In quel momento capii che era il mio strumento ed è lì che nacque tutto. Mi avventuravo in un mondo fino ad allora a me sconosciuto. Trascorrevo interi pomeriggi nella mia cameretta, ripassando i consigli dei tamburellisti delle Terre Neure (Nino, Luigi e Andrea).
Alle elementari abbiamo avuto dei docenti fantastici, che hanno sempre creduto nel valore dell’Arte come senso di espressione e durante tutto il ciclo scolastico realizzammo recite, manifestazioni culturali e teatrali. Decisi di raccontare le mie esperienze musicali alla maestra Giusy la quale coinvolse subito il resto della classe.
Tempo 24 ore e non c’era bambino della scuola che non avesse un tamburello in casa.
Sì, infatti, scoppiò questa “moda”. Ma non ero il solo a suonare con le Terre Neure, c’era anche mio cugino Ismaele (più piccolo di me). Inoltre, quello era il periodo delle prime edizioni di alcune sagre cittadine e durante i concerti del gruppo in Piazza Umberto I, ci esibivamo da soli in un piccolo spazio che ci veniva riservato. Porto avanti la mia passione per questo genere musicale perché è quello che mi piace fare, mi ha aiutato nei periodi meno facili della vita e, in generale, credo che impegnarsi in ciò che si ama fare, porta sempre a qualcosa di bello.
Quella dei Domo è senz’altro musica dalle note calde e soprattutto dai ritmi travolgenti. Più volte avete suonato in paesi molto freddi (Lituania, Estonia, ecc.). Come si approcciano i paesi stranieri a questo genere musicale?
Mi sono posto anch’io questa domanda prima di suonare in quei Paesi. Una delle prime esperienze che ho fatto con Terra del Sole, fu quella di partecipare ad un festival internazionale del folklore in Estonia, fu una tournée bellissima, girammo tutto il paese. Lì ero in un contesto di musica folkloristica popolare in cui la nostra tradizione era diversa dalla loro, si percepiva un certo “distacco” e differenza. Partendo dall’amore di base per la cultura ci si rendeva subito conto che il nostro approccio era più verace nel sentire le tradizioni, mentre il loro era sicuramente forte ma più cinico, profondo e pacato. Lì da parte mia ci fu una presa di coscienza: compresi che è importante il modo in cui si trasmette il tipo di musica (a prescindere dal genere). Tornando al discorso della condivisione, mi resi conto che nonostante la loro lingua fosse molto diversa dal nostro dialetto salentino o da quello siciliano, la cosa strana era che da lì veniva fuori tutta la potenza della musica come linguaggio universale. Al di là di quello che si vuole comunicare attraverso le parole di un testo, la magia nella musica avviene quando si arriva ad ogni modo.
È un discorso generale sulla comunicazione: riesci a trasmettere qualcosa solo se senti veramente quello che stai suonando, lo devi sentire dentro. Stefano mi ricorda spesso un aneddoto: mentre suonavo durante un concerto in Estonia, preso dalla foga del momento, lasciai il tamburello per saltare giù dal palco e andare ballare. È anche questo che intendo quando parlo di “sentire la musica dentro”.
I Domo hanno suonato alla fashion week organizzata dalla Warner Bros a Hollywood. Cosa si prova a esibirsi in un contesto del genere? Raccontaci questa esperienza.
All’inizio di tutta questa storia non avremmo mai immaginato di andare a suonare in California. Siamo arrivati lì grazie a un nostro amico, Ricardo Soltero, uno stilista che abbiamo conosciuto suonando al matrimonio di una coppia americana. Ricardo disegnò dei vestiti e ci invitò a fare da colonna sonora per la sua sfilata alla Warner Bros durante la Fashion Week e fu un’esperienza che sembrava troppo grande rispetto a noi, eravamo nel tempio del cinema. Giorni così forti, di quelli che vivi al massimo, momenti che credi di non rivivere più. Il nostro sogno è quello di poter continuare a lavorare anche all’estero, augurandoci di poter realizzare colonne sonore.
Dopo anni lontano da casa, descrivi cosa si prova a esibirsi di nuovo nel proprio paese. Com’è stato salire non su un palco qualunque ma su quello di Piazza Umberto I°.
Al di là della Warner Bros, di Los Angeles o Hollywood, il mio sogno più grande era quello di suonare a Veglie e colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che mi hanno permesso di realizzare questo sogno in particolar modo Fernando Leardi, Matteo Don Giovanni, Stefano Rizzello e tutti gli altri. Fu un’emozione figlia di sensazioni troppo forti e particolari, direi assolutamente uniche. Sono quel tipo di emozioni che puoi provare solo una volta nella vita, come quando discuti la Tesi di Laurea, oppure, quando conosci una persona che capisci subito che può essere importante per la tua vita e che dopo trent’anni è ancora lì, al tuo fianco.
Man mano che si avvicinava la data del concerto di Veglie, cercavo di pensare a come sarebbe stato risalire su quel palco, questo perché, come vi dicevo prima, quello è stato forse il primo palco che ho calcato. Lì in quella piazza c’è tutto, il simbolo del paese (la fontana), l’asilo che ho frequentato e a pochi metri anche casa mia. Più si avvicinava quella data, più cercavo di capire come avrei potuto e dovuto gestire quel magone che inevitabilmente si sarebbe formato in gola. Penso che ogni artista durante un concerto viva di emozioni, nel momento in cui le blocca, allora, preclude qualcosa a sé stesso ma soprattutto a chi lo ascolta. È uno scambio continuo di energie che non puoi fermare perché se frenate impedisci che possa accadere la magia di quella condivisione di emozioni. Quindi, cercavo di capire come gestire quest’emozione che mi sarebbe esplosa dentro. Ho apprezzato tantissimo la vicinanza di parenti, amici e del paese; non dimenticherò mai gli abbracci ricevuti prima e dopo quel concerto. Quando mi sono visto sul quel palco è stato qualcosa di incredibile.
Cosa pensa tua madre di questa tua passione e lavoro? Ti preferirebbe informatore medico o musicista?
Mia madre talvolta viene a ballare ai miei concerti e credo che sia entusiasta nel vedermi fare quello che mi fa sentire bene con me stesso. Dedicandomi solo alla musica potrei vivere di tante cose, ma ciò non toglie che fare l’informatore medico scientifico sia un altro tipo di esperienza lavorativa che mi ha dato tanto e che contribuisce in egual modo a farmi essere la persona che sono oggi.
In tutto quello che fai, ci devi mettere criterio e voglia, ricercando gli stimoli giusti laddove non fossero naturali e immediati. Tutto quello che realizzi ti offre qualcosa di bello, di buono o di brutto da includere nel bagaglio della propria vita.
Nei tuoi viaggi di ritorno a Milano, dopo un concerto o dopo aver trascorso qualche giorno nella tua terra, cosa metti in “valigia”?
Quando parto per un posto in cui non sono mai stato prima, provo sempre una strana sensazione di curiosità sul come potrà essere l’organizzazione e il pubblico. Ci siamo trovati in tante situazioni molto diverse tra loro quindi posso dire che quando parto la mia valigia è piena di speranza di fare del bene allietando chi da lì a poco verrà a conoscerci.
Quando torno a Milano dalla mia terra, invece, faccio sempre tesoro dei momenti di condivisione trascorsi con amici e conoscenti, soffermandomi sull’importanza dei rapporti veri che nel corso della vita sono riuscito a creare e mantenere.
Tornando a Milano dai concerti dei Domo Emigrantes, ritorno con una valigia piena di sensazioni legate all’evento, lo scambio di sensazioni e di energia che c’è stata tra noi e il pubblico. A proposito di “cosa porti in valigia” vi racconto un’altra esperienza vissuta: l’estate scorsa eravamo in Olanda per dei concerti in cui sperimentavamo il binomio musica popolare-musica classica, venne a salutarci un’anziana donna che nel pomeriggio aveva assistito alle nostre prove. Si complimentò con noi e ci regalò due buste di libri italiani sui canti popolari di autori storici del settore. Ci disse che per lei era un onore regalarci quei libri perché sicura che ne avremmo fatto tesoro. Ricevere quel regalo ci toccò molto, credo che siano proprio questi gesti ad aprire la mente, facendoti capire che sei riuscito nell’intento di arrivare a chi ti ascolta nel modo in cui speravi. Da quel viaggio tornammo con due valige piene di libri, alcune risposte e davvero tanta emozione.
Intervista a cura di Anna Chiara Coppola, Marco Palma e Giorgio Cappello
Foto di Filippo Renna